Con l’invasione unilaterale dell’Ucraina la Russia ha violato la Carta delle Nazioni Unite, rendendosi colpevole del crimine internazionale di aggressione, ovvero dell’uso della forza armata da parte di uno Stato contro la sovranità, l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di un altro Stato mediante invasione, occupazione militare, bombardamento, blocco dei porti e delle coste, invio di bande di mercenari, tanto per fare qualche esempio concreto significativo.

Pur con qualche giorno di ritardo, la Svizzera ha quindi giustamente adottato le sanzioni internazionali: essere neutrali non può significare rendersi complici, quali osservatori silenziosi, di crimini internazionali e umanitari. Ci sono ingiustizie e illegalità di fronte a cui intervenire è una responsabilità etica e un dovere politico. Come è stato ricordato negli scorsi giorni: neutralità non significa indifferenza.

La dimensione geopolitica di quest’invasione ingiustificata e illegale è enorme – il tempo ci dirà quanto. Chiara è però sin d’ora la dimensione della tragedia umanitaria: vittime civili, oltre un milione di persone in fuga – il cui numero non potrà fare altro che crescere, avviate al destino e allo statuto di rifugiati che prima o poi nessuno vuole -, malati curati negli scantinati, centinaia di migliaia di bambini, donne e anziani rinchiusi nei bunker e nelle metropolitane che vivono tra la paura del presente e l’incertezza per il futuro.

Dall’altra parte della barricata soffre anche il popolo russo: giovani soldati mandati a morire in nome di una guerra che neanche capiscono, la popolazione privata ulteriormente della libertà (è vietato parlare di attacco, invasione, guerra, è vietato esprimere dissenso verso una «operazione militare speciale destinata al mantenimento della pace», è vietato informarsi sui media non ufficiali)[1] che si ritrova vittima delle – pur giuste – sanzioni internazionali e della russofobia.

Non esiste nessuna interpretazione storica che giustifichi questo orrore. I distinguo e le controaccuse sono quindi fuori luogo: colpevole non è l’Occidente, non la NATO, non l’Unione europea. Colpevole è la Russia putiniana che, spinta dalla nostalgia della potenza sovietica (la cui caduta Putin ha definito «la più grande catastrofe geopolitica del Ventesimo secolo»), tenta ora di ricostruire l’impero sovietico in versione nazionalista russa a suon di propaganda, censura, fake news e interventi armati. In quest’ottica l’annessione (nel 2014 della Crimea, domani delle repubbliche separatiste e forse dell’intera Ucraina) non è altro che la restaurazione di una realtà storica assoluta, rimasta fedele alle logiche della Guerra Fredda, che aspira a ridare la speranza di un radioso futuro interrotta dal crollo dell’Urss e dall’umiliazione degli anni ’90. Realtà storica assoluta che nega il diritto ad un percorso politico e sociale democratico ai territori che facevano parte dell’Unione sovietica[2].

Ma l’Ucraina non è una pedina da muovere a proprio piacimento sullo scacchiere geopolitico mondiale: è uno Stato sovrano, abitato da un popolo che si riconosceva tale già nella metà dell’Ottocento all’interno dell’impero russo. L’Ucraina è una democrazia, il cui governo e le cui autorità sono espressione della volontà popolare. Una democrazia certamente giovane, imperfetta, fragile, in cui la corruzione è ancora troppo diffusa. Ma è una democrazia che funziona(va), nonostante tutto: la prova di ciò sta nel fatto che davanti ad un élite politica incapace di costruire un Paese moderno, corrotta e legata al passato, il popolo ucraino non è rimasto a guardare, ma ha imboccato la strada della protesta di piazza che ha innescato i cambiamenti (Rivoluzione sul granito del 1990, Rivoluzione arancione del 2004, Rivoluzione di Euromaidan del 2013-2014). È offensivo nei confronti degli ucraini, dei moti popolari ma in definitiva anche del concetto stesso di democrazia, ridurre questi movimenti di protesta al risultato dell’ingerenza di potenze straniere, quasi a suggerire che gli ucraini non siano dotati di opinione e volontà propria.

L’Ucraina, come tanti altri stati sovietici, ha sofferto sotto il dominio dell’Urss, ma il sentimento anti-russo è stato alimentato ancor più dalle scelte di Putin a partire dal 2014: quando l’Ucraina elesse un Governo che guardava all’Europa, Putin decise di annettersi la Crimea e di alimentare il separatismo nel Donbass. «Non è un antico odio tra i due Paesi a spiegare le decisioni politiche degli ultimi anni, sono le decisioni politiche degli ultimi anni a spiegare il nuovo odio tra i due Paesi»[3]. Se prima la peculiarità della società civile ucraina era la vivace commistione tra culture e lingue diverse (non solo ucraino e russo, ma anche polacco, yiddish, romeno, romanì), ora da questa guerra gli ucraini usciranno più nazionalisti che mai, più determinati che mai a difendere l’identità linguistica, culturale, etnica ucraina, sacrificando forse la preziosa eterogeneità della sua società.

Resta, al di là di tutte queste considerazioni, il senso d’impotenza e l’amara sensazione che da questa tragedia usciremo tutti perdenti. Non sarà la corsa al riarmo a salvarci: l’obiettivo deve rimanere la convivenza pacifica, il disarmo, la diplomazia. Le voci affrettate che, anche alle nostre latitudini, rivendicano più mezzi per l’esercito, farebbero meglio ad impegnarsi per accelerare la svolta energetica e climatica, che ci permetterebbe di ridurre la dipendenza dalle energie fossili e dagli stati autoritari e bellicosi da cui esse provengono. Una dipendenza che ci rende estremamente vulnerabili: lo diciamo da anni, ora è sotto gli occhi di tutti. Pure ingenuo è chi pensa che il nucleare sia la soluzione. Al di là del fatto che essa non risolve la questione della dipendenza dall’estero e che ci vorrebbero decenni per costruire una centrale, l’energia atomica è anche davvero pericolosa: in Ucraina ci sono quattro centrali nucleari attive con 15 reattori. Un potenziale distruttivo immane, situato in zona di combattimento, che rappresenta un pericolo che va ben oltre i confini del Paese e che non dovrebbe farci dormire sonni tranquilli.

Rimane, timida, anche la speranza che siano la società civile russa e ucraina, ossia i cittadini, a rifiutare il linguaggio della Guerra Fredda e il lessico dei nazionalismi per far nascere una nuova idea di futuro. In fondo è per questo che ci entusiasmano tanto i singoli atti di resistenza che vediamo messi in opera da cittadini ucraini in questa guerra: perché testimoniano la forza di una scelta di campo che spesso noi non sappiamo fare neanche davanti al nostro capoufficio. Come ha ben scritto Claudio Lo Russo sulle pagine de laRegione (2 marzo), «Non sappiamo che cosa sognino, se sognano o desiderano qualcosa, la donna con i semi di girasole o i doganieri pronti a “pisciare sugli stivali” agli ufficiali di Putin. Nel nostro tempo in apparenza iper-informato, non sappiamo nemmeno se siano ancora vivi. Di certo, però, come il Montale di un secolo fa, a cavallo fra due guerre, possono dirci “ciò che non sono, ciò che non vogliono”. A volte, la storia, collettiva o individuale, s’inizia a fare con un “no”, magari con un fiore ancora non nato».

[1] Direttive del Roskomnadzor, l’organo della Federazione Russa che controlla le comunicazioni e il relativo oscuramento, la privacy e le frequenze radio, https://www.agensir.it/quotidiano/2022/3/4/russia-nuova-legge-punisce-chi-scrive-o-parla-di-guerra-e-non-di-operazione-militare-speciale/

[2] Marco Puleri, Quali confini tra Russia e Ucraina, ReteDue, Geronimo Storia, 21 febbraio 2022.

[3] Sergio Benvenuto, Ucraina e Russia, la storia spezzata. https://www.doppiozero.com/materiali/ucraina-e-russia-la-storia-spezzata.

La dimensione geopolitica di quest’invasione ingiustificata e illegale è enorme – il tempo ci dirà quanto. Chiara è però sin d’ora la dimensione della tragedia umanitaria: vittime civili, oltre un milione di persone in fuga – il cui numero non potrà fare altro che crescere, avviate al destino e allo statuto di rifugiati
Greta Gysin, Consigliera Nazionale