Se si chiedesse a qualsiasi persona di riporre parte del suo stipendio o dei suoi risparmi in un fondo globale per sponsorizzare la fabbricazione di armi, munizioni e altro materiale appositamente studiato per ammazzare quanta più gente possibile, con ogni probabilità risponderebbe di no. No, perché nessuno vorrebbe che il proprio denaro venisse utilizzato per finanziare e dunque alimentare guerre e conflitti armati, con tutte le atrocità che essi comportano. Eppure è ciò che succede tutti i giorni nella nostra tranquilla e neutrale Svizzera, dove istituti bancari, fondazioni e casse pensioni possono pacificamente investire i soldi dei loro affiliati nel fruttuoso business della guerra, sostenendo chi produce materiale bellico. L’iniziativa contro il finanziamento di produttori di materiale bellico in votazione il prossimo 29 novembre vuole correggere questa inaccettabile situazione, chiedendo in particolare che alla Banca Nazionale, alle fondazioni e agli istituti di previdenza statali e professionali non sia più concesso investire i propri fondi nel finanziamento di imprese che realizzano oltre il 5% della propria cifra d’affari con la fabbricazione di materiale bellico, nel quale non sono compresi apparecchi per lo sminamento umanitario, armi da caccia, da sport e relative munizioni. Si chiede inoltre alla Confederazione di adoperarsi a livello nazionale e internazionale affinché siano applicate condizioni analoghe anche a banche e ad assicurazioni.

Qualcuno cerca di far apparire questi investimenti necessari, anzi vitali per assicurare riserve monetarie e pensioni floride, oltre che pregiati posti di lavoro nel settore degli armamenti. Io credo invece che in uno Stato neutrale e promotore dei diritti umani, non esista nessun presupposto che legittimi un coinvolgimento negli affari della guerra, specialmente impiegando i risparmi di cittadine e cittadini ignari. Si possono e si devono assicurare buone condizioni monetarie e pensionistiche alla popolazione tramite investimenti sostenibili, che hanno ricadute positive per la società e per l’ambiente in cui vive e che rappresentano fonti di reddito attrattive e stabili. Lo stesso vale per chi devotamente difende l’industria bellica svizzera nel nome della sua ormai quasi sacra funzione occupazionale. Posti di lavoro qualificati e sicuri possono e devono essere creati incentivando quelle aziende che praticano una cultura imprenditoriale etica e innovativa, rivolta soprattutto agli ambiti in cui si trovano le maggiori sfide per la società, come la transizione rinnovabile, l’efficientamento energetico di processi, edifici e mezzi di trasporto, lo sviluppo e l’impiego di tecnologie a emissioni negative. Le ditte produttrici di armi potranno continuare a svolgere le loro attività, ma finanziandosi esclusivamente attraverso i loro mandati e grazie a investitori o azionisti privati, che non impiegano i risparmi di cittadine e cittadini. Inoltre, l’iniziativa compromette solo in maniera marginale l’attività delle ditte di armamenti svizzere, concentrandosi piuttosto su quella delle grandi industrie belliche internazionali. Questo perché la regolamentazione riguarderebbe prevalentemente la Banca Nazionale, le fondazioni e le casse pensioni, che investono in commerci bellici principalmente attraverso fondi internazionali dai quali le aziende svizzere sono spesso escluse perché di dimensioni troppo ridotte.

È ora di dire basta a finanziamenti insanguinati per arricchirci ancora di più. È ora di smettere di sacrificare i nostri beni più preziosi sull’altare della crescita e del profitto. È ora di abbracciare una cultura imprenditoriale etica e una finanza sostenibile e sensata. È ora di dire SÌ all’iniziativa contro il finanziamento di produttori di materiale bellico il prossimo 29 novembre.

Cristina Gardenghi
Deputata in Gran Consiglio per i Verdi del Ticino