Il raccontino natalizio di Giancarlo Dillena (CdT 24 dicembre) ha chiuso un anno denso di interventi, a volte anche interessanti, sulla questione del cambiamento climatico. Non mi soffermo sui luoghi comuni proposti dalla storiella edificante: lasciamo che le macchiette della famiglia Bernascotti, ammaestrate dal fantasma del nonno, affrontino serene l’anno appena iniziato. Merita invece qualche riflessione l’insieme del dibattito, a tratti acceso, sviluppatosi sul giornale a partire da giugno. Qualcuno, sballottato tra posizioni opposte molto assertive, sarà ancora oggi disorientato, ma per lo più i lettori si saranno fatta una loro opinione. Ho letto con interesse alcune voci scettiche sulle cause antropiche del riscaldamento climatico, e con sbalordimento quelle più cocciutamente recalcitranti, spesso venate da deliri complottisti (in questo darei la palma a Robi Ronza, che sotto il sole d’agosto è arrivato a vedere dietro l’allarme climatico il disegno perverso di far rientrare dalla finestra, su scala mondiale, «il progetto politico marx-leninista»). Sul protagonista dell’anno – il CO2 – vorrei solo far presente una cosa: se anche il contributo delle attività umane al riscaldamento climatico fosse molto parziale, si tratta comunque dell’unico spazio di manovra che abbiamo per rallentarlo. Visto che usciamo dal periodo delle feste viene da fare un paragone dietetico: a quanto pare l’alimentazione incide solo nella misura del 15% sul tasso di colesterolo; ebbene, non per questo ci ingozziamo di cotechino mattino e sera.

Ciò detto, anche a me l’attenzione mediatica quasi esclusiva sulla produzione di CO2, e sugli spostamenti di Greta Thunberg, ha dato un certo fastidio. Ma non è il fastidio di chi nega la responsabilità umana nel mutamento climatico ed esprime avversione viscerale per l’attivista svedese (alla quale si deve, in gran parte, la salutare mobilitazione giovanile di questi mesi). La questione è un’altra. Sembra quasi che la necessità di una “svolta ecologica” sia determinata esclusivamente dall’urgenza climatica. Se da un lato è logico che il riscaldamento in atto venga percepito, già a medio termine, come la minaccia principale per la vita umana sul pianeta, dall’altro la sovraesposizione del CO2 finisce per mettere in ombra altre questioni importanti: la presenza pervasiva di microplastiche in ogni angolo del pianeta, gli effetti nefasti di molti prodotti chimici sulla nostra salute, sugli ecosistemi e sui suoli agricoli, l’obsolescenza programmata, lo spreco sistemico di risorse, alimentari e non. Tanto per dirne alcune. Non è che non se ne parli, ma sono aspetti che emergono solo episodicamente nell’attuale dibattito pubblico. E non sono ragioni già sufficienti per richiedere una “svolta ecologica”? Una visione d’insieme di questi problemi porterebbe a mettere radicalmente in discussione il nostro sistema economico orientato alla sola crescita quantitativa: irrazionale, intrinsecamente distruttivo, insostenibile, ingiusto, che concentra i profitti in poche mani esternalizzando e socializzando i danni, le scorie, la disperazione. Problemi che non si risolvono con il semplice passaggio alle fonti energetiche rinnovabili e con una società a zero emissioni (anche se lo sforzo in quella direzione implica miglioramenti in altri campi, basti pensare all’aria che respiriamo).

Sul piano elettorale i Verdi hanno tratto vantaggio dal “protagonismo” del diossido di carbonio. Sta soprattutto a loro evitare ora che il discorso, nella percezione pubblica, si appiattisca sull’emergenza climatica. Nel loro programma c’è l’abbandono del mito della crescita, il passaggio a un’economia circolare, un altro concetto di mobilità, lo sviluppo di una società centrata su reti relazionali e produttive di prossimità… in poche parole un ripensamento complessivo che non si riduce ai provvedimenti tesi a ridurre le emissioni di CO2, magari con false ma rassicuranti soluzioni come la sostituzione di ogni auto a benzina con una elettrica. Nel fondo il “green new deal” è un’operazione cosmetica, l’eco-narrazione di un capitalismo in crisi che cerca di rilanciarsi su nuove strade.

Ho aperto ricordando un articolo natalizio e chiudo con uno di fine anno. Il direttore Fabio Pontiggia, il 31 dicembre, ha accennato nel suo editoriale anche all’«ondata climatista che punta l’indice contro le nostre più elementari libertà». Ma quali sarebbero le libertà minacciate da questa ondata? Di sicuro quella di inquinare, quella di sfruttare senza limiti le risorse naturali esaurendo le fonti materiali del nostro benessere, quella di costruire la propria ricchezza ai danni del prossimo, quella di costringere interi popoli alla fuga, quella di produrre il generale deperimento degli ecosistemi… (e mettiamoci anche quella di volare da Berna a Zurigo per un incontro diplomatico). Ciò implica inevitabilmente la restrizione di due libertà a lui care: quelle di iniziativa economica e di commercio (ma in cambio si potrà forse garantire anche a coloro che verranno la libertà di vivere). Non vedo invece grandi minacce per altre libertà (e mi sembrano queste le «più elementari», o fondamentali) affermate dalla Rivoluzione francese e ancorate nelle costituzioni liberali dei decenni successivi: la libertà di opinione, di stampa, di religione, di associazione, di spostamento, di domicilio. Se queste oggi sono a rischio, non è certo a causa del movimento per il clima. Pontiggia scrive che «l’inconoscibilità del futuro è il bello di questo mondo». Se oggi il panorama si presenta cupo (e non solo per le ragioni sfiorate qui) proprio questa inconoscibilità ci consente un briciolo di speranza per gli anni e le generazioni che verranno.

Danilo Baratti, consigliere comunale per i Verdi a Lugano