La libera circolazione della manodopera sta creando effetti perversi dai costi e dalle conseguenze agghiaccianti anche per chi queste scelte non vuol farle ma le deve subire.


Ve la racconto con un esempio vissuto in prima persona da artigiano. Fino a qualche anno fa potevo vantarmi di produrre alimenti con materia prima bio ticinese e svizzera, coadiuvato da collaboratori al 100% residenti e partecipando regolarmente ai concorsi per mense scolastiche, istituti, ospedali, ecc.

Da qualche anno non vinco un particolare concorso in ambito di una struttura cantonale. La differenza di prezzo del mio prodotto è di circa 30 ct. il kg; viene preferito un prodotto nazionale prodotto con soia importata.

La persona (funzionario ben pagato con le nostre imposte) responsabile della delibera in questione, con la sua decisione fa guadagnare al Cantone meno di 200.- fr. l’anno. Come artigiano ne perdo invece circa 7000.- fr. di cifra d’affari; ma non è l’unico caso; e sovente per piccoli produttori come me, tale introito può già fare la differenza per la sopravvivenza dell’azienda.

A questo punto per essere concorrenziale e continuare l’attività dovrei decidere di abbassare i salari o assumere un frontaliere e lasciare a casa un residente. In ogni caso il risultato è che Cantone e Comuni (i cittadini) sborserebbero migliaia di franchi per il dipendente ora disoccupato oppure, non raggiungendo più un minimo salariale, dovrà ricorrere a sussidi vari pagato con le nostre imposte; infine potrebbe decidere, per risparmiare, d’andare a far la spesa in Italia.

È uno dei tanti effetti perversi della libera circolazione e di una insana modalità di gestione delle risorse cantonali. Spiace sentir dire da parte di un Consigliere di Stato: ” O mangia questa minestra o salta dalla finestra”. E questo per almeno quattro motivi:

1)     vista l’altezza di case e palazzi rischieremmo di farci molto male e pure di morire;

2)     uno dei principi della vita è: “ogni cosa ha un inizio e una fine” e qualsiasi contratto o accordo fatto (da esseri umani) non è eterno, dunque deve poter essere rinegoziato se ad una delle parti non sta più bene, soprattutto dopo aver visto i disastri ai quali stiamo assistendo. La storia delle nazioni dovrebbe insegnarci qualche cosa.

3)     Dire che non si può cambiare vuol dire negare la volontà di cambiamento e il cambiamento è proprio un altro dei principi costanti della vita. Dei politici con questa mentalità non saranno mai pronti e qualificati ad affrontare le sfide che la vita ci impone. Soprattutto se è con questo spirito di rassegnazione che si negozia.

4)     Infine, per debito di riconoscenza e rispetto di chi ha lottato prima di me, rinuncio volentieri a un piatto di minestra, se questo può aiutare a salvaguardare quei diritti e quelle libertà che ritengo fondamentali, acquisiti in secoli di sofferenze. Ed è “l’UE” ad invidiarci, oltre al benessere, i nostri principi democratici, non il contrario.

Quelle scelte miopi o accordi fatti da politici che legano le mani ai propri cittadini (operai, artigiani o imprenditori), impedendo di dare ai giovani le stesse opportunità avute da chi è nato prima di loro, vanno denunciati e rinegoziati senza tergiversare. Non è più una questione di destra o sinistra, di xenofobia o razzismo. Ci vuole solo buon senso. Al contrario, l’effetto domino sarà (e in parte lo è già) devastante.
 

Pierluigi Zanchi
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onsigliere comunale a Locarno, candidato n. 89 al Gran Consiglio