Onorevole Presidente, onorevoli Consiglieri di Stato, colleghe e colleghi,

sgombro subito il campo dai dubbi e sciolgo i motivi della mia riserva. A me le quote rosa – o quote femminili o ancora quote paritetiche, per usare un linguaggio politicamente corretto – non piacciono. Neanche un po’.

Forse perché noi Verdi – che, per usare una definizione della nostra neo Capa Gruppo “non siamo né di destra, né di sinistra, siamo avanti” – abbiamo superato questa fase e siamo già arrivati alla fase dell’emergenza delle “quote azzurre”.

Non mi piacciono le quote rosa perché, se abbandonassimo per un momento la visione ombelicale che non ci fa guardare oltre i ristrettissimi steccati del nostro minuscolo orticello cantonale, ci accorgeremmo che nel mondo le discussioni attorno alle disuguaglianze di genere si sono già spostate ad un altro livello e su altre questioni. Giusto un paio di esempi: l’anno scorso il Belgio ha eliminato il genere dai propri documenti d’identità, mentre il City Council di New York ha deliberato già nel 2018 un analogo provvedimento con il quale le famiglie possono scegliere di registrare il proprio figlio, in un terzo genere, il genere X.

E qui mi fermo, per non distanziarmi troppo dal tema di oggi e anche perché sento già schiumare il collega Pellegrini.

Di esempi, però, nei settori più disparati, ve ne sono a iosa. Dalla grammatica inclusiva con la controversa introduzione dello “schwa”, all’edilizia pubblica e all’annosa questione, anch’essa proveniente da oltre oceano, dei bagni unisex, genderless o genderfree che dir si svoglia. Che – mi si permetta un ultimo inciso – è già stata proposta anche in Svizzera in una Mozione del 2018 Un atto parlamentare dell’estrema sinistra, intrisa di pensiero magico? Assolutamente no, la Mozione porta la firma del Consigliere nazionale PLR lucernese Albert Vitali, condivisa da 73 parlamentari di vari partiti borghesi (tra cui anche i ticinesi Cattaneo, Merlini e Quadri) e secondo la quale l’obbligo di mantenere toilette separate risalirebbe “ai tempi della rigida morale vittoriana e non è più adeguato alla vita moderna”.

Questa breve premessa vuole solo offrire una prospettiva più ampia al dibattito di quest’oggi e ricordarci che, mentre noi discutiamo sull’equa ripartizione di genere nei CdA pubblici e para pubblici (perché è questo il tema della Mozione Ghisletta), in Svizzera e nel resto del mondo si inizia invece a mettere in discussione la nozione stessa di genere.

Ciò nonostante, questo patologico ritardo su questioni fondamentali quali l’uguaglianza, i diritti civili e la parità non ci autorizza però a chiudere gli occhi su una situazione oggettiva, ben tratteggiata nel Rapporto Schilling del 2022, citato nel Rapporto di minoranza: la percentuale di donne nelle stanze dei bottoni non è neppure la metà rispetto alla ripartizione di genere effettiva della nostra società.

Una sotto rappresentanza – quella femminile – che assume graficamente una forma piramidale: dal 36% delle collaboratrici, si passa al 25% dei quadri mediani per finire con il 18% delle top manager; le donne presidenti sono solo il 7% del totale, l’1% in meno delle Amministratrici delegate dei CdA. Riassumendo, più in alto si sale negli organigrammi e nelle scale gerarchiche delle aziende svizzere e meno donne si trovano.

Delle due l’una: o le donne sono attualmente e drasticamente sotto rappresentate, oppure, nel nostro paese, le donne soffrono di vertigini. La verità è che questa selezione piramidale – di cui oggi, ad interessare questo Gran Consiglio, è solo il suo vertice, la punta dell’iceberg della disuguaglianza – abbassa addirittura l’altezza del fantomatico soffitto di cristallo, il glass-ceiling, ovvero quell’insieme di condizioni quadro discriminatorie che impediscono un corretto avanzamento di carriera ai membri di minoranze di genere o di altro tipo.

A questo proposito vale comunque ricordare che il Glass-ceiling index pubblicato nel 2019 dall’Economist piazzava la Svizzera al 26. posto mondiale per quanto riguarda l’ambiente di lavoro e le possibilità di carriera delle donne. Una posizione davanti alla Turchia, al di sotto comunque della media dei paesi appartenenti all’Organizzazione mondiale per la cooperazione e lo sviluppo economico e abbondantemente dietro a nazioni dell’Europa orientale e meridionale.

E dire che, già nel corso del 2020, la Confederazione aveva rilevato questa anomalia diramando delle disposizioni rivolte alle grandi imprese quotate in borsa con sede in Svizzera e concernenti la sensibilizzazione ad un maggiore impiego di quadri dirigenti di sesso femminile. Le direttive, in vigore dal 1. gennaio 2021, scaturivano dalla revisione del diritto delle società anonime e si ponevano quale obiettivo il raggiungimento di una quota del 30% di presenza femminile nei CdA.

Uno studio pubblicato di recente dalla Sonntagszeitung, conferma (al ribasso) la tendenza appena esposta. Tra tutte le aziende dello Swiss Market Index, al 1. gennaio 2022 la percentuale di donne nelle direzioni di imprese si attesta attorno al 19% (13.4% per quanto concerne le aziende SMIM, indice di media capitalizzazione), con il 92% dei nuovi impieghi assegnati a top manager provenienti dall’estero. Rispetto agli obiettivi prefissati nel gennaio 2021, mancano ancora all’appello 40 dirigenti femminili tra SMI e SMIM.

E che dire allora della situazione in Ticino? Il Mozionante l’ha definita “desolante” e in tutta franchezza non possiamo che essere d’accordo.

Inoltre, al di là della mera questione di genere, spulciando tra i nominativi che compongono i CdA delle aziende pubbliche ticinesi, oltre all’ennesima conferma – semmai ce ne fosse ancora bisogno – della sotto rappresentanza femminile, troviamo a fatica Svizzeri di seconda o terza generazione o persone con meno di 40 anni d’età. Cosa significa? Semplicemente che l’identikit della composizione dei CdA pubblici non rispecchia per nulla il ritratto della nostra società attuale, ma tratteggia invece la caricatura di un Cantone che troppo spesso appare ancora profondamente arcaico e, per certi versi, organizzato al proprio interno come una tribù, in cui i legami clientelari e di sangue tra i pater familias sono preponderanti su considerazioni puramente legate al merito, alle capacità o alle competenze e che minacciano sempre più la mobilità sociale all’interno del nostro Cantone. Il politologo Francis Fukuyama definirebbe il Ticino come una tipica “società del Sud”, qualcun altro invece parlerebbe più prosaicamente di un Ticino ancora feudale; e non è un caso se, proprio ieri in quest’aula, anche la collega Ferrari, ha definito questo Parlamento – che altro non è se non il riflesso delle popolazione che lo elegge – “ottocentesco”.

In conclusione, pur ribadendo il mio personale scetticismo sia sulla costituzionalità che sull’efficacia dello strumento proposto, porto la convinta adesione del Gruppo dei Verdi e il mio voto personale alle conclusioni del Rapporto di Minoranza e rivolgo un ultimo, accorato appello alle colleghe e ai colleghi che, come il sottoscritto, nutrono dei dubbi sulle famigerate quote rosa.

Per scegliere di sostenere il Rapporto di minoranza, basta condividerne anche solo una frase, ovvero quelle sette parole del titolo del paragrafo 6.3 a pagina 10, ovvero che le quote rosa, azzurre o arcobaleno, per quanto possano non piacerci, sono comunque “uno strumento controverso per un obiettivo condiviso”.

A patto però che l’obiettivo sia davvero condiviso da tutte e da tutti e che nessuno, in quest’aula, creda davvero che in Svizzera, ed in Ticino in particolare, le donne soffrano di vertigini.

Andrea Stephani

Per il gruppo dei Verdi, Bellinzona, 15 marzo 2022