La pubblicità è protetta dalla libertà di espressione e dalla libertà economica, diritti fondamentali riconosciuti sia a livello svizzero che internazionale. Tuttavia, queste libertà non sono assolute e possono essere soggette a limitazioni, quando ricorrono specifiche condizioni. Tra i criteri che giustificano tali restrizioni rientrano, ad esempio, la nocività di un prodotto o la violenza del discorso usato per incoraggiare l’acquisto di una merce.

In merito alla pubblicità sessista, fondata essenzialmente su stereotipi di genere, che colpiscono sia uomini che donne, è lecito chiedersi se essa possa essere così dannosa e violenta da violare i diritti fondamentali di altre persone. E la risposta è sì.

Uno stereotipo è un’impronta (týpos) che comprime un’infinità di esseri umani in un unicum rigido (stereós), impronta che si ripete identica e incurante delle differenze e dei mutamenti che ogni persona di fatto manifesta. Gli stereotipi, sono banalmente “immagini facili che abbiamo in testa” e che non corrispondono necessariamente alla realtà. Tuttavia, possiedono un enorme potere nel modellare la percezione che le persone hanno di sé e degli altri. Gli stereotipi di genere, in particolare, non solo mistificano l’immagine di donne e uomini, ma creano aspettative irrealistiche che possono danneggiare entrambi.

Le donne, ad esempio, sono spesso rappresentate come oggetti sessuali o confinate a ruoli domestici, mentre gli uomini vengono stereotipati come forti, dominanti e privi di emozioni. Questi messaggi non solo tramandano disuguaglianze radicate, ma alimentano insicurezze, discriminazioni e pregiudizi, con conseguenze negative per l’intera società.

La pubblicità sessista sfrutta e rafforza stereotipi di genere che spesso si fondano su una rigida separazione dei ruoli: da un lato, come detto, le donne confinate nel contesto domestico e allontanate dallo spazio pubblico; dall’altro, rappresentazioni stereotipate della sessualità. Queste immagini pubbliche contribuiscono a giustificare e persino ad alimentare fenomeni di violenza.

Ad esempio, l’incitamento all’odio in chiave sessista trova spesso radici in una visione stereotipata delle donne. Non sorprende, dunque, che atti di violenza fisica possano essere scatenati anche dal comportamento di una donna che non si conforma agli stereotipi sociali imposti. Il sessismo affonda le sue radici in stereotipi di genere e la pubblicità sessista, rafforzandoli, diventa un elemento che alimenta il più ampio e drammatico fenomeno della violenza di genere.

Per queste ragioni, sì, è legittimo chiedere che questo tipo di pubblicità venga vietato.

Eppure, attualmente, a livello federale in ambito di pubblicità sessista non esiste alcuna regolamentazione. L’attuale legislazione sulla pubblicità, in particolare la Legge federale contro la concorrenza sleale e la Legge federale sulla radiotelevisione, non richiamano la pubblicità discriminatoria in base al genere. Una protezione verso queste discriminazioni non è nemmeno stata prevista in ambito della recente revisione dell’articolo 261bis del Codice penale. In Ticino, similmente, la Legge sugli impianti pubblicitari non prevede delle restrizioni in tal senso. Tuttavia, esiste la possibilità di ricorrere contro la pubblicità sessista presso la Commissione svizzera per la Lealtà. Questo organismo nazionale di autoregolamentazione del settore pubblicitario condanna apertamente la pubblicità sessista attraverso la sua regola B.8.

La Regola B.8 così recita: “Qualsiasi comunicazione commerciale che discrimini un sesso violando la sua dignità è sleale“.

e prosegue, specificando che la comunicazione commerciale che discrimina sulla base del sesso si verifica, in particolare,

  1. Quando vengono attribuite caratteristiche stereotipate a un determinato sesso, minando così il principio della parità di valore tra i sessi,
  2. Quando vengono rappresentate visivamente relazioni di sottomissione o di sfruttamento, o quando la violenza o il comportamento dominante vengono suggeriti come tollerabili,
  3. Quando le rappresentazioni visive delle persone interessate non rispettano l’età dei bambini o degli adolescenti,
  4. Quando non esiste un legame naturale tra la persona che incarna il genere in questione e il prodotto pubblicizzato,
  5. Quando la persona in questione è ritratta in una funzione puramente decorativa, al solo scopo di attirare l’occhio,
  6. Quando c’è una rappresentazione inappropriata della sessualità.

È proprio su questa possibilità di ricorrere presso la Commissione svizzera per la Lealtà, che spesso ci si appella per giustificare il rifiuto dell’introduzione di una regolamentazione contro la pubblicità sessista. Tuttavia, l’efficacia della commissione è limitata. Questa, infatti, può pronunciarsi sul contenuto dei messaggi pubblicitari e chiedere la fine di una campagna, ma non può sanzionare chi effettivamente propone annunci con caratteri sessisti, e le risoluzioni giungono verosimilmente troppo tardi per poter fare in modo che una campagna sia effettivamente fermata.

Le statistiche pubblicate annualmente dalla stessa Commissione mostrano chiaramente che, se nel 2011 le segnalazioni esaminate dalla Commissione in ambito di possibili infrazioni alla regola B.8 erano solo il 3,1%, nel 2017 rappresentavano il 18,2% e nel 2021 il 23,7%.

Quindi, i casi esistono ma gli strumenti per prevenirli ancora mancano.

Anche il Comitato per l’eliminazione della discriminazione contro le donne continua a ribadire, ancora recentemente, che la Svizzera deve adottare ulteriori misure per combattere il sessismo, anche quello legato agli stereotipi di genere e deve maggiormente impegnarsi per combattere la sotto-rappresentazione delle donne nella sfera pubblica. Con la sua ratifica alla Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e alla Convenzione di Istanbul, la Svizzera si è presa un impegno che di fatto non sta rispettando.

Scavalcando quindi il vuoto legislativo svizzero, i cantoni di Vaud, Ginevra, Neuchatel, Basilea e Friborgo hanno approvato un disegno di legge che vieta la pubblicità sessista. Dimostrando nel concreto che gli strumenti che abbiamo a disposizioni non sono sufficienti, soprattutto a prevenire la possibilità dell’insorgere di episodi sgraditi.

E oggi abbiamo la possibilità di fare del Ticino un altro esempio di ragione e dichiarare con fermezza che anche sul nostro suolo pubblico la tolleranza è pari a zero nei confronti di qualsivoglia azione che veicola stereotipi di genere. La proposta dell’ex collega Gardenghi è proprio quello di modificare l’art. 4 della Legge sugli impianti pubblicitari e vietare così la pubblicità sessista negli stalli percettibili dall’area pubblica. Proposta che vi chiedo di accogliere così come elaborata nel rapporto di minoranza da Lisa Boscolo, che nel concreto espande il divieto anche alle inserzioni razziste e omofobe.

In conclusione, vorrei ribadire che questa non si tratta di censura, ma di estirpare alla radice pericolosi messaggi che veicolano comportamenti nocivi, lo stesso principio che applichiamo al tabacco e all’alcool senza che nessuno gridi allo scandalo. Ma, non illudiamoci, per essere efficace, una misura come quella che ci apprestiamo a votare oggi deve andare di pari passo con altre politiche, sia cantonali che federali, volte a combattere gli stereotipi di genere, in tutte le forme che questi possono assumere e in tutti i luoghi in cui questi possono presentarsi.  

Vi invito quindi ad appoggiare il rapporto di minoranza, ma soprattutto a dibattere in modo rispettoso.