Per raggiungere le strutture carcerarie bisogna percorrere una lunga strada industriale. Lungo il tragitto si incontrano officine meccaniche, capannoni vari, un centro di riciclaggio e un foyer della Croce Rossa. È un paesaggio che, a chi lo attraversa, ricambia una percezione precisa: quella dell’abbandono. Di scarti, di persone e cose lasciate ai margini, fuori dai circuiti vitali della nostra collettività. E proprio lì, in fondo a quella strada, si trovano le carceri ticinesi.

La loro non è solo una collocazione geografica. È una potente immagine simbolica. La detenzione come spazio dimenticato, escluso dallo sguardo collettivo e troppo spesso anche dall’agenda politica. Mentre il mondo fuori corre, in quella lunga Via alla Stampa il tempo sembra invece essersi fermato. E così, anche le strutture carcerarie ormai impossibilitate ad affrontare le sfide del presente. Oggi si presentano in condizioni fatiscenti, strette tra sovraffollamento costante, carenza di personale e – soprattutto – un drammatico aumento dei casi psichiatrici. Sfide vecchie altre parzialmente nuove, complesse, che strutture vecchie e modelli superati non riescono più a racchiudere.

Il recente rapporto della Commissione lo dice chiaramente: le carceri ticinesi non sono più in grado di rispondere alla complessità dei bisogni che oggi emergono all’interno delle loro mura.

Un’emergenza strutturale che continua a gravare anche sulle nostre carceri è il sovraffollamento. Le strutture detentive ticinesi operano da anni ben oltre la loro capienza: si parla regolarmente di un tasso di occupazione pari o superiore al 100%. In queste condizioni, ogni tentativo di rieducazione si scontra con la realtà: spazi insufficienti, tensioni crescenti, personale sotto pressione. Non è solo una questione logistica: è una problematica che incide profondamente sulla qualità della detenzione e sulla sicurezza. Il sovraffollamento non è un imprevisto: è la conseguenza di scelte rinviate troppo a lungo. È il segnale che serve una pianificazione coraggiosa e finalmente all’altezza delle sfide che stiamo affrontando.

Un’altra urgenza che sta per implodere tra le mura del carcere è quella dei detenuti con disturbi psichici. In molte situazioni non stiamo più parlando di detenuti, ma di pazienti rinchiusi in celle. Persone che avrebbero bisogno di cure, di accompagnamento, di un percorso terapeutico vero. E invece vengono contenute e affidate a personale che, pur impegnandosi con grande dedizione, non ha né le competenze né i mezzi per rispondere a quei bisogni.

Nel nostro Cantone manca una struttura specializzata per l’esecuzione delle misure terapeutiche psichiatriche. Il risultato? I pazienti vengono respinti dalle cliniche, trattenuti nei penitenziari, e abbandonati in un limbo che non è né pena, né cura. Un solo caso grave può destabilizzare un’intera sezione: blocca le attività dei laboratori, mette sotto pressione gli operatori, crea situazioni di rischio continuo. Le crisi acute si gestiscono con ciò che si ha: troppo poco.

Nel complesso, è stato detto, chi lavora nelle nostre carceri è chiamato a un compito impossibile: contenere il disagio, garantire sicurezza, supplire alle mancanze del sistema sanitario, sopportare turni estenuanti in condizioni sempre più precarie. È un terreno fertile per incidenti evitabili, burnout o dimissioni. E infine, per il collasso.

In generale, non è più sufficiente costruire nuove celle. Non è più sufficiente aumentare i posti letto. Serve una riforma culturale, nonché una nuova struttura, almeno una struttura per iniziare a curare i casi più problematici. Serve anche una riflessione su cosa significhi, oggi, punire. E su cosa significhi, oggi, reinserire. L’assunzione di educatori all’interno dello Stampino è già un buon primo passo, per esempio.

Ciò nonostante, in altri Paesi e Cantoni si stanno sperimentando approcci ancora più sviluppati. Abbiamo visto un carcere, è stato detto, dove per le persone in via d’espiazione di pena, il tempo della detenzione è impiegato per formarsi, lavorare, coltivare e imparare. Dove il rispetto delle regole convive con la cura della persona. Dove il carcere non è una parentesi punitiva, ma un tempo utile, pensato per il rientro nella società.

Non che le strutture ticinesi non ci provano, si fa il possibile, ma con le giuste risorse si potrebbe fare ancora di più. Anche perché da un punto di vista economico, dare un compito e un impiego giornaliero a ogni persona detenuta può essere assai redditizio.

Comunque, per far fronte ad alcuni dei problemi sopraesposti sappiamo che sul tavolo ci sono già delle proposte concrete. Per esempio, la mozione “Per un’adeguata presa in carico delle persone sottoposte a misure terapeutiche stazionarie” che indica con chiarezza la strada: la necessità di avere una struttura terapeutica cantonale per l’esecuzione delle misure psichiatriche.

Questa sarebbe utile si sviluppasse con il progetto di ristrutturazione La Stampa, di cui lo svolgimento spiace leggere sul Consuntivo 2024 sia ancora “non in linea”. Il nostro gruppo sosterrà anche il rapporto del collega Mazzoleni in votazione nei prossimi giorni. Progetti che sulla base delle urgenze dette, chiediamo vengano affrontati seriamente e a breve termine.

E allora torniamo un attimo a quella strada. Quella lunga via industriale che conduce al carcere. È facile voltarsi dall’altra parte, come facciamo spesso di fronte a ciò che ci mette a disagio. Ma quella strada oggi ci interpella. Ci costringe a scegliere. Possiamo continuare a ignorarla, lasciandola finire in un luogo di abbandono e dimenticanza. Oppure possiamo trasformarla in un percorso di responsabilità e impegno. Perché il carcere non è solo il luogo dove finiscono le persone che sbagliano: è anche il punto in cui si misura la nostra idea di giustizia e di dignità.

Giulia Petralli, granconsigliera